La clausola di doppia indicizzazione finanziaria e monetaria del canone di leasing supera il vaglio di meritevolezza degli interessi ex art. 1322, II, c.c. e non è un “derivato implicito”

Cass. civ., Sez. Unite, n. 5657 del 2023

La problematica della meritevolezza degli interessi perseguiti dai contraenti, ai sensi dell’art. 1322, II, c.c., si è posta, di recente, con riferimento a un contratto di locazione finanziaria in cui le parti avevano inserito una clausola di doppia indicizzazione del canone, ancorandolo sia al tasso c.d. Libor CFH riscontrato con una determinata periodicità sia al cambio valutario franchi svizzeri/euro, con conseguente determinazione dei guadagni e delle perdite a seconda delle variazioni di questi indici.

Le Sezioni Unite (n. 5657 del 2023) – chiamate a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica della clausola in questione – hanno fornito alcune importanti precisazioni di carattere generale in ordine al giudizio di meritevolezza, in contrapposizione al giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa: il primo attiene al risultato avuto di mira dai contraenti mediante la stipula, e non investe il contratto in sé considerato. Ne consegue che tale valutazione relativa al negozio non può essere formulata in astratto ed ex ante – limitandosi, cioè, ad una valutazione del suo contenuto oggettivo –, ma si impone una sua osservazione in concreto ed ex post, per decifrare quale sia lo scopo concretamente perseguito dalle parti. Affinché un patto atipico si ponga in violazione dell’art. 1322, II, c.c., è necessario riscontrare la contrarietà del risultato perseguito ai principi di solidarietà, parità e non prevaricazione fondanti i rapporti privati, dando luogo a una pattuizione contrastante con la coscienza civile, l’economia, o il buon costume e l’ordine pubblico.

Ciò premesso, i tre argomenti spesi dal Giudice territoriale per sostenere la non meritevolezza della clausola di “rischio cambio” concretamente inserita nel contratto risultavano erronei in diritto:

  • È inidoneo l’argomento fondato sull’inserimento di una clausola non chiaramente intelligibile nel regolamento contrattuale, ritenuto il calcolo della variazione del saggio di interesse dovuto dall’utilizzatrice “astruso e macchinoso”. In presenza di siffatte clausole l’interprete è tenuto a ricorrere agli strumenti di ermeneutica contrattuale ex 1362-1371 c.c. Peraltro, la valutazione di “complessità” di una clausola non può mai essere intesa in senso assoluto: da un punto di vista epistemologico, non esistono concetti “facili” e concetti “difficili”, ma esistono concetti noti e ignoti. Qualora la clausola sia astrusa in senso relativo, poiché contenuta in uno schema contrattuale predisposto unilateralmente da un professionista e sottoposto ad un soggetto privo delle competenze necessarie per comprenderla, i rimedi che possono rilevare sono l’annullamento del contratto (per vizi del consenso) ovvero il risarcimento del danno da inadeguata informativa precontrattuale, ove imposta ex lege o dal canone generale di buona fede.
  • Inoltre, la previsione di una differente base di calcolo dell’indicizzazione, a seconda che intervenisse un apprezzamento o un deprezzamento dell’euro rispetto alla valuta di riferimento, non può dirsi tale da provocare uno stravolgimento della causa negoziale tipica – trasferimento della proprietà di un immobile –, poiché l’alea economica (insita in ogni contratto) non va confusa con l’alea giuridica. Nemmeno si può ritenere che l’aleatorietà della clausola sia tale, di per sé, da poter rendere immeritevole ex 1322 c.c. il contratto, stante la pacifica ammissibilità nel nostro ordinamento della stipula di contratti aleatori atipici (anche mediante inserimento di un elemento di aleatorietà in un contratto commutativo, avente l’effetto di escludere l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii ordinari di cui agli artt. 1467 e 1664 c.c. al verificarsi di sopravvenienze incidenti sull’equilibrio delle prestazioni contrattuali), nell’esercizio del potere di autonomia negoziale dei contraenti.
  • Da ultimo, l’argomento facente leva sullo squilibrio tra le obbligazioni dei contraenti provocato da tale clausola (stante l’asimmetria nella misura della variazione del saggio degli interessi, derivante dal prevedibile apprezzamento costante del franco svizzero sull’euro) non era convincente. Il differenziale tra prestazione e controprestazione non può legittimamente rendere un contratto immeritevole, ove tale fattore sia stato compreso ed accettato da entrambi i contraenti, in considerazione dell’esigenza dell’ordinamento di garantire in egual misura sia la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti sia il diritto di iniziativa economica. Il concetto di equilibrio contrattuale non può essere inteso come piena parità delle prestazioni dovute da ciascuna parte contrattuale e il giudizio ex 1322 c.c. non può trasformarsi in un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell'affare. Anche ammettendosi che la modalità di calcolo del conguaglio degli interessi, così come prevista nel contratto, fosse più vantaggiosa per il concedente rispetto all’utilizzatore, ciò non è sufficiente ai fini di un giudizio di immeritevolezza contrattuale, potendosi al più discutere circa la validità ex art. 1341 c.c. della clausola, ovvero se essa sia frutto dell’approfittamento di uno stato di bisogno del contraente, o ancora se il suo inserimento non sia stato corredato da adeguata informativa precontrattuale (con soccorso, in questi casi, di rimedi differenti da quello ex art. 1322, II, c.c.).

Per quanto riguarda la natura giuridica della clausola di doppia indicizzazione del canone, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il rilevato contrasto giurisprudenziale (Cass. civ., III, n. 8603 del 2022) – in tema di qualificazione e validità delle clausole, inserite in un contratto di leasing che vincolino la variazione degli interessi dovuti dall’utilizzatore alle oscillazioni di un duplice indice finanziario e monetario – possa reputarsi, in realtà, più apparente che reale. In diverse occasioni, infatti, la Suprema Corte ha sancito la validità di siffatte clausole e la non riconducibilità delle stesse alla categoria dei c.d. “strumenti derivati impliciti” (Cass. civ., III, n. 4659 del 2021), escludendo contestualmente la loro idoneità a provocare un sensibile squilibrio negoziale, in quanto favorevoli a una sola delle parti (Cass. civ., III, n. 26538 del 2021). 

A partire dalla necessità di operare una distinzione tra gli strumenti derivati e le clausole di indicizzazione, le Sezioni Unite hanno escluso la qualificazione della clausola in questione alla stregua di uno strumento finanziario derivato “implicito” – con conseguente non assoggettabilità della pattuizione agli obblighi informativi imposti dal T.U.F. – avuto riguardo sia alla definizione di derivato contenuta nel testo normativo vigente all’epoca della stipula del contratto sottoposto a scrutinio, sia a quella di cui all’art. 1 D. Lgs. n. 58 del 1998 attualmente vigente.

In definitiva, secondo il Supremo Collegio, tale patto non è riconducibile ad alcuna delle categorie di derivati contemplate dalla normativa richiamata, né può essere ricondotto a tali figure facendo ricorso all’analogia. Invero, esso si limita a vincolare la determinazione del valore del debito dell’utilizzatore ad un duplice indice, senza che le parti abbiano inteso speculare sull’andamento delle valute: per effetto del contratto, la concedente ha assunto l’obbligo di acquistare l’immobile, mentre l’utilizzatrice quello di goderne e corrispondere le rate del canone.

In ragione della funzione (anche) di finanziamento naturalmente sottesa all’operazione di leasing, essa può essere stipulata, alternativamente, in valuta nazionale oppure in valuta estera: i contraenti possono prediligere la seconda opzione per porsi al riparo dai rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale. Parametrando l’importo del finanziamento a un rapporto di cambio, le parti utilizzano una clausola-valore per individuare il criterio di commisurazione della prestazione del debitore, producendo come effetto naturale l’aleatorietà del contratto (come si è visto, circostanza di per sé non dirimente a determinare l’invalidità o la non meritevolezza della pattuizione).

L’ulteriore previsione della regolazione a parte di conguagli periodici in denaro, in favore dell’una o dell’altra parte, costituisce poi una mera modalità di adempimento dell’obbligazione, a sua volta inidonea a trasformare la pattuizione in uno strumento finanziario derivato. Essa provoca soltanto l’effetto di individuare un diverso termine di adempimento, senza incidere sulla qualificazione giuridica del contratto. A sostegno della tesi della inidoneità del cambiamento del termine di adempimento a mutare il titolo dell’obbligazione, le Sezioni Unite hanno osservato che, nello statuto generale delle obbligazioni civili, è contemplata la possibilità di regolare a parte alcune obbligazioni e non altre, ovvero un’aliquota dell’unica obbligazione, come dimostrato dalla facoltà – normativamente prevista in capo al creditore – di accettare un adempimento parziale (1181 c.c.) o di rinunciare al termine stabilito a suo favore (1185 c.c.).

Le precedenti considerazioni non mutano in presenza di un regolamento contrattuale in cui venga inserita una doppia indicizzazione del canone, sia alle variazioni del tasso Libor CFH, sia alle fluttuazioni del rapporto di cambio franco svizzero/euro: la prima è normalmente presente in ogni operazione di finanziamento a tasso variabile e, pertanto, è pacificamente lecita e non integrante uno strumento derivato. Allo stesso modo, la seconda – una volta correttamente qualificata come clausola-valore – è lecita e non costituisce un derivato.

In conclusione, le Sezioni Unite escludono che la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio articolata nei termini del patto oggetto del giudizio possa implicare, di per sé, una violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario finanziario. In ogni caso, tale violazione non provocherebbe una censura di non meritevolezza del contratto, essendo idonea a condurre, al più, all’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure all’accertamento di una responsabilità precontrattuale, o ancora ad una condanna di risarcimento del danno.

 

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