Verbum argentum, sed silentium aurum est. Le policromie del nemo tenetur se detegere: la sua configurabilità come causa di non punibilità in senso stretto - di Marco Zincani
Contributo originariamente pubblicato su Giurisprudenza Penale: https://www.giurisprudenzapenale.com/2023/06/09/verbum-argentum-sed-silentium-aurum-est-le-policromie-del-nemo-tenetur-se-detegere-la-sua-configurabilita-come-causa-di-non-punibilita-in-senso-stretto/
L'Avv. Marco Zincani commenta la pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
CORTE COSTITUZIONALE, 5 GIUGNO 2023, SENTENZA N. 111 PRESIDENTE SCIARRA, REDATTORE VIGANÒ
Sommario.
1. Il nemo tenetur: un principio in cerca di definizione.
2. La questione posta all’attenzione della Corte Costituzionale.
3. Il postino suona sempre due volte: il diritto al silenzio “informato”, quale diritto ad essere avvertiti della possibilità di tacere, la cui violazione è causa di non punibilità in senso stretto.
4. Falsari di parola (Inf., XXX, 91-129)! Il mendacio non è (ancora) un diritto.
5. Il fulcro del bilanciamento: l’abuso del diritto di difesa.
6. Ulteriori previsioni in attesa di una declaratoria d’illegittimit
1. Il nemo tenetur: un principio in cerca di definizione
Prima di fare colazione penso a sei cose impossibili: 1. c’è una pozione che ti fa rimpicciolire; 2. e una torta che ti fa ingrandire; 3. gli animali parlano; 4. i gatti evaporano; 5. esiste un paese delle meraviglie; 6. c’è un principio che non è mai lo stesso (il nemo tenetur).
Il nucleo tradizionale del principio del nemo tenetur se detegere è integrato da alcune ineludibili garanzie che spettano all’imputato nell’ambito del procedimento penale, rispetto alle quali in principio si pone quale corollario del diritto di difesa (2-24, II, 111 Cost., nonché 27, II, Cost., in relazione alla presunzione d’innocenza) e quale principio cardine del sistema processuale, il quale impone che l’imputato non debba “essere considerato quale depositario di una verità da carpire ad ogni costo”; tale soggetto, piuttosto, “è un organo di prova solo eventuale, che interviene nell’accertamento per libera scelta e nel proprio interesse difensivo” (Corte Cost., n.267 del 1994; v. anche Corte Cost. nn.236 del 1984, 361 del 1998, ord. nn. 291, 451 e 485 del 2002 e 202 del 2004; nello stesso senso, estendendo i confini del principio anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo n.84 del 2021, nonché, dello stesso relatore, n.111 del 2023, sulla quale v. oltre). Tali garanzie variano in base al ruolo che l’imputato può assumere rispetto alla formazione della prova, giacché l’imputato può rilevare come “organo” e come “oggetto” di prova(FLORIAN).
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Come “organo” di prova, l’indagato/imputato ha facoltà di fornire un contributo attivo consistente nel rendere dichiarazioni che si riferiscono all'accertamento del fatto. Su questo versante, il principio del nemo tenetur opera attribuendogli la facoltà di scelta tra contribuire all’accertamento del fatto (c.d. autodifesa attiva o diritto a difendersi provando) e a non partecipare all’istruzione probatoria (c.d. autodifesa passiva o diritto al silenzio; come vedremo, si è discusso se il principio del nemo tenetur possa estendersi sino a riconoscere un vero e proprio diritto di fornire un apporto conoscitivo falso, volto a ostacolare l’accertamento del fatto, c.d. diritto al mendacio).
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Viceversa, come “oggetto” di prova, il presunto reo può rilevare rispetto a tutti gli accertamenti tecnico-scientifici che hanno a oggetto il corpo umano, rispetto ai quali il soggetto si trova in una situazione di soggezione, rilevando come mera entità fisica suscettibile di osservazione e di studio. In tale ipotesi, l’imputato non contribuisce attivamente all’istruzione probatoria, ma vi soggiace con la propria persona. Riguardo alle indagini compiute dalla polizia giudiziaria, si pensi ai rilievi e accertamenti finalizzati all’identificazione dell’indagato (349, II, c.p.p.); al prelievo di saliva o capelli strumentale sempre all’identificazione dell’indagato (349, II bis, c.p.p.), ai rilievi e accertamenti urgenti su persone diversi dall’ispezione personale (354, III, c.p.p.), o alle perquisizioni urgenti (352 c.p.p.). Sempre con riferimento alle indagini preliminari, viene inoltre in considerazione l’attività d'indagine del pubblico ministero, che può compiere accertamenti tecnici sul corpo della persona (359, 359 bis, 360 c.p.p.), l’individuazione di persona (361 c.p.p.), nonché le ispezioni e le perquisizioni personali. Infine, sono previste le ricognizioni di persone (213 p.p.) e le perizie da eseguire sul corpo umano (220 c.p.p.), tra le quali quelle richiedenti il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale per determinare il profilo del DNA, o per altri accertamenti medici (224bis c.p.p.).
Rispetto alla situazione giuridica dell’imputato quale “oggetto” di prova, si è discusso se il principio del nemo tenetur possa spingersi sino a consentire all’imputato di rifiutare lo svolgimento di accertamenti probatori sulla propria persona (c.d. diritto al rifiuto, si pensi al prelievo organico e all’alcoltest).
La principale facoltà sottesa al diritto di autodifesa passiva - cioè di non fornire elementi di prova in proprio danno - è quella che permette all’imputato/indagato di non presenziare al processo.
Quest’ultima prerogativa è garantita dagli artt.208 e 490 c.p.p., che vietano l’accompagnamento coattivo in udienza. L’imputato che decida di partecipare al processo ha piena facoltà di autodeterminarsi nelle scelte difensive, se del caso rimanendo silente anche in sede di interrogatorio o,più in generale, di rifiutare complessivamente il dialogo (c.d. diritto al silenzio).
In perfetta aderenza con la cornice dei principi costituzionali che governano il procedimento penale (24, 27 Cost.), il diritto al silenzio trova ampio riconoscimento nella disciplina del Codice di rito, con la rilevante eccezione dettata dall’art.66, II, c.p.p. (nel Codice previgente contemplata agli artt.366, I, c.p.p. e 25 disp. Att. c.p.p.) dell’obbligo dell’indagato di fornire le proprie generalità, “affinché fosse data alla polizia giudiziaria prima, e all'autorità giudiziaria poi, una direttiva di carattere generale per i necessari riscontri sull'identità della persona nei cui confronti si svolge l'azione penale” (Rel. Prog. Prel. Codice del 1988). La disposizione, fin dalla sua introduzione nel Codice previgente, ha dato adito a serrate critiche circa i confini estremamente labili della disposizione, che non consentiva di comprendere in quali ipotesi l’indagato fosse legittimato a valersi del suo diritto al silenzio.
2. La questione posta all’attenzione della Corte Costituzionale
Il caso che ha dato oggetto all'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Firenze riguarda le dichiarazioni rese in sede d'identificazione da parte di un soggetto il quale, in seguito all'elezione di domicilio e alla nomina del difensore, dichiarava di non avere riportato condanne in Italia, avendo invece riportato due condanne definitive.
In base all'art.64 c.p.p., la persona sottoposta alle indagini interviene libera all'interrogatorio e non possono essere utilizzati metodi o tecniche idonei a influire sulla sua libertà di autodeterminazione, o ad alterare la capacità di ricordare o valutare i fatti (potendosi persino determinare la responsabilità penale dell'operatore di giustizia, ex 610 c.p., v. Cass. pen., n.20365 del 12 maggio 2023; della stessa sezione, conf.: nn..3562 del 2011; 1786 del 2016 e 40485 del 2019). Il terzo comma dell'articolo in esame impone, prima che abbia inizio l'interrogatorio, di dare all'indagato i seguenti avvisi, a pena di inutilizzabilità:
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che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
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che salvo quanto disposto dall'articolo 66, co.1, c.p.p. ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; l'articolo 66, I, c.p.p. sopra richiamato prevede che nel primo atto cui è presente l'imputato o l’indagato, l'autorità giudiziaria lo inviti a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere a identificarlo (nome, cognome, luogo e data di nascita), ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di fornire le proprie generalità o le dà false, rispettivamente:
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il delitto di cui all'art.495 p., che punisce chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale "l'identità, lo stato, o altre qualità della propria o dell'altrui persona" (per costante giurisprudenza la previsione si applica anche all’imputato che declini false generalità e prevale sulla previsione meno grave e sussidiaria della sostituzione di persona, v. Cass. pen., V, 41702del 2019; nonché, della stessa sezione, nn.36834 del 2016 e 4264 del 2022);
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la contravvenzione di cui all'art.651 c.p., per chi invece rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato, o su altre qualità personali.
Ai sensi dell'art.21 disp. att. c.p.p., il giudice o il pubblico ministero, quando procede ex 66 c.p.p., oltre a formulare gli inviti espressamente indicati da quest'ultimo articolo, invita l'imputato o l'indagato a indicare:
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se ha un soprannome o uno pseudonimo;
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se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale;
3. se è sottoposto ad altri processi penali, o se ha riportato condanne
nello Stato o all'estero;
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se esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità e se ricopre o ha ricoperto cariche
L’illegittimità rilevata dal giudice fiorentino in tale ambito rileverebbe sotto un duplice profilo.
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Profilo procedurale. Non vi sarebbe alcun obbligo di far precedere le domande di cui all'art.21 disp. att. c.p.p. dagli avvisi di cui all'art.64, III, p.p., dal momento che tali domande si riferirebbero all'identità e allo stato civile e giuridico dell'imputato e non al fatto di cui egli sia accusato.
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Profilo sostanziale (connessi). Non ricadendo nel dovere di rispondere secondo verità - sancito espressamente dall'art.66, I, p.p. per le sole domande concernenti le generalità e per quelle strettamente finalizzate all'identificazione - la mera reticenza rispetto ai profili indicati dall'art.21 cit. non potrebbe dare luogo a responsabilità penale (da ultimo v. Cass. pen., IV, n.2497 del 2022, Cass. pen., V, n.18476 del 2016) e l'indagato potrebbe pertanto rifiutarsi di rispondere senza incorrere in responsabilità penale. Tuttavia, per un evidente corto circuito del sistema, laddove decidesse di rispondere e rendesse false dichiarazioni, egli sarebbe responsabile del delitto di cui all'art.495 c.p. (ex multis, Cass. pen., V, n.37571 del 2015 e Corte Cost. n.108 del 1976). Le sue dichiarazioni, non ricadendo nella sanzione dell'inutilizzabilità sancita all'art.64, co.3bis c.p.p., sarebbero pienamente utilizzabili a ogni effetto di legge, anche ai fini dell'affermazione di una sua responsabilità penale per falsità.
Riepilogando: - le domande preliminari indicate dall'art.21 disp. att.
c.p.p. non dovrebbero essere precedute da alcun avviso e non consentirebbero di dichiarare falsità, ma solo di restare reticenti;
- quelle rientranti nell'interrogatorio vero e proprio (ad eccezione di quelle sulle generalità in senso stretto - nome e cognome, luogo e data di nascita) dovrebbero essere sempre precedute dagli avvisi di cui all'art.64, III, c.p.p. a pena d'inutilizzabilità (con conseguente non punibilità ex 384, II,c.p. laddove questi venissero meno) e l'imputato potrebbe rispondere liberamente anche mentendo, senza subire conseguenze penali, in forza del principio nemo tenetur se detegere (384, I, c.p.p.), con tre sole eccezioni:
a) quando accusi falsamente altri di avere commesso il reato (368 c.p.)
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quando affermi falsamente essere avvenuto un reato in realtà mai realizzato (367 c.p.)
b) quando rende dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, rispetto ai quali assumerà l'ufficio di testimone, ex 64, III, lett.
c) c.p.p., purché abbia ricevuto il relativo avvertimento.
3. Il postino suona sempre due volte: il diritto al silenzio “informato”, quale diritto a essere avvertiti della possibilità di tacere, la cui violazione è causa di non punibilità in senso stretto
Ancora una volta il principio è stato posto alla sapiente attenzione del relatore Viganò, che in passato aveva affrontato lo stesso tema, nella diversa prospettiva dell’estensione del principio ai procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare in sanzioni di carattere sostanzialmente punitivo (sent. n.84 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.187quinquiesdecies del d.lgs. n.58 del 1998, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, o per un reato; peraltro, il medesimo redattore, nell’ordinanza n.117 del 2019, formulando alcune questioni pregiudiziali sullo stesso tema, aveva indotto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. 2 febbraio 2021, causa C-481/19 D.B. contro Consob a riconoscere che il diritto al silenzio fosse implicitamente riconosciuto anche dall’art.47 della Carta di Nizza).
Nella sentenza n.111 del 5 giugno 2023, richiamando alcuni assunti delle precedenti statuizioni in materia, la Corte Costituzionale consolida la portata del diritto costituzionale al silenzio quale predicato del diritto di difesa, ritenendo che questo si debba estendere anche alle domande di cui all’art.21 norme att. c.p.p., previo avvertimento alla persona sottoposta alle indagini o imputata della facoltà di non rispondere anche a tali domande. La formulazione di un addebito penale instaura un rapporto di tensione tra l’autorità e l’incolpato che coinvolge alcune istanze contrapposte e di pari rango del sistema penale. La tutela dei consociati postula l’adozione di tutti gli strumenti (anche coercitivi) necessari all’accertamento dei reati e legittima una limitazione delle libertà fondamentali. D’altro canto, l’incolpato deve difendersi e ne ha pieno diritto, al fine di evitare o limitare le conseguenze privative derivanti da una condanna (gli stessi meccanismi primitivi di autodifesa della mente umana negano tutte le realtà che causano al cervello uno stress eccessivo da sopportare, inducendo a difendere i torti commessi persino con maggior vigore rispetto ai propri diritti).
Il difficile coordinamento di queste esigenze in conflitto - protezione della collettività e difesa dell’imputato - è il terreno sul quale si possono misurare le scelte culturali, ideologiche e politiche sottostanti ai diversi ordinamenti penali e, più in generale, l’assetto dei rapporti intercorrenti in un dato momento storico fra Stato e cittadino, ossia fra “autorità” e “libertà”.
Il brocardo latino nemo tenetur se detegere (o nemo tenetur se ipsum accusare) esprime il punto di equilibrio tra le esigenze menzionate che ogni ordinamento penale moderno accoglie, in forza delle quali nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale (privilegio contro l’autoincriminazione), o a fare dichiarazioni contrarie al proprio interesse (nemo tenetur edere contra se).
L’art.14, paragrafo 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP, New York 16 dicembre 1966, in vigore il 23 marzo 1976), che riconosce espressamente alla persona accusata il diritto al silenzio: “a non essere costretto a deporre contro se stesso o a confessarsi colpevole”.
La CEDU non contempla espressamente tale facoltà, ma la Corte di Strasburgo ne rinviene il fondamento implicito nell’art.6 in materia di “processo equo” e di “presunzione d'innocenza”, in una lettura che attribuisce al principio valenza squisitamente processuale e non sostanziale. Secondo la Corte di Strasburgo, il concetto di “processo equo” (6, I, CEDU) esclude l’ammissibilità di qualsiasi forma di costrizione o pressione sull’imputato volta ad acquisire dal medesimo dichiarazioni contra se. Il principio si ricava, peraltro, anche dalla lettura dell’art.6, II, CEDU, il quale sancisce la presunzione d’innocenza e comporta che la colpevolezza dell’imputato debba essere dimostrata dall’accusa; non è ammessa alcuna inversione dell’onere probatorio, circostanza che si realizzerebbe invece ogni qual volta si costringesse l’imputato a deporre come testimone sul fatto proprio, costringendolo, attraverso l’imposizione di un obbligo di verità a dimostrare la propria colpevolezza (Corte EDU, 21 dicembre 2000, McGuinnes c. Irlanda; 8 febbraio 1996, Murray c. Regno Unito).
Nessun accusato può essere condannato per il solo fatto di essere rimasto silente durante tutta la procedura di fronte alla contestazione dei fatti addebitatigli (Corte EDU, 8 ottobre 2002, Beckles c. Regno Unito); né, allo stesso scopo, possono essere fatte valere dichiarazioni o documenti che il soggetto sia stato coartato a effettuare o consegnare durante un’indagine amministrativa, antecedente o contestuale al procedimento penale e relativa alla medesima res iudicanda (Corte EDU, 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito; Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito). In molte decisioni, poi, la Corte EDU si è preoccupata di definire i limiti del principio del nemo tenetur già sul piano processuale, e del diritto al silenzio in particolare, giungendo a chiarire che lo stesso, pur essendo al centro della nozione di processo equo, non è un diritto assoluto. Se, da un lato, la condanna non può fondarsi esclusivamente o essenzialmente sul silenzio dell’imputato, possono darsi casi in cui la mancata risposta potrebbe indirettamente nuocere all’imputato. Infatti, secondo la Corte, qualora lo svolgimento del processo abbia evidenziato un quadro probatorio solido a carico dell’imputato, tale da dimostrarne sufficientemente la colpevolezza, l’esercizio della facoltà di non rispondere ben potrà costituire un elemento apprezzabile come “riscontro” a suo carico (Corte EDU, 8 febbraio 1996, Murray c. Regno Unito; 6 giugno 2000, Averill c. Regno Unito). Vi sarebbero, dunque, talune situazioni eccezionali in cui il giudice può trarre conclusioni dal silenzio dell’imputato a sostegno delle tesi propugnate dall’accusa; viceversa, quando egli abbia risposto in ordine al fatto addebitatogli, tentando di discolparsi dalle accuse e spiegando le ragioni del suo precedente silenzio, tali elementi dovranno comunque essere tenuti in conto dal giudice del merito, che non potrà più valutare negativamente il precedente esercizio dello ius tacendi (Corte EDU, 2 maggio 2000, Condron c. Regno Unito). La prospettiva accolta dai giudici di Strasburgo è persino meno garantista rispetto a quella sancita dal diritto interno, che non consente di desumere dal silenzio dell’accusato alcun elemento di responsabilità.
Il principio è sancito implicitamente anche dall’art.47 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), formalmente rubricato “Diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale” (“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”). In tale previsione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. 2 febbraio 2021, causa C-481/19
D.B. contro Consob, riconosce implicitamente (in armonia con quanto stabilito dall’art.6 CEDU) la tutela del diritto al silenzio, precisando che lo stesso risulta violato in una situazione in cui un sospetto, minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione “o depone o viene punito per rifiutarsi di deporre (§39), anche in relazione a informazioni su questioni di fatto che “possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa e avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona” (§40).
Rileva pertanto ogni situazione nella quale l’autorità pone alla persona sospettata o imputata domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale.
Ad avviso della Corte, tale situazione occorre rispetto alle domande indicate dall’art.21 norme att.proc. pen., concernenti condizioni personali, diverse dalle generalità, la cui conoscenza da parte dell’autorità potrebbe generare conseguenze pregiudizievoli in capo al sospetto reo o all’imputato.
Tra le ipotesi richiamate dall’art.21 delle disposizioni di attuazione del
Codice di procedura penale:
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i procedimenti penali potrebbero rilevare:
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per integrare un fatto di reato (es. la contravvenzione di cui all’art.707c.p.);
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ai fini della recidiva ex 99 p.
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per valutare l’abitualità nel reato ex 131bis p.
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per valutare la pericolosità sociale riguardo a molteplici valutazioni: 62bis, 133, II, c.p., 164, I, 168bis c.p. e nella valutazione delle misure cautelari o precautelari.
E’ irrilevante che i precedenti possano essere ricavati agevolmente dalla consultazione del casellario giudiziale, perché la presunzione d'innocenza di cui all’art.27, II, Cost., operando quale regola di giudizio e di distribuzione dell’onere probatorio, impone al Pubblico Ministero la dimostrazione di tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice oltre ogni ragionevole dubbio, escludendo invece un onere in tal senso per l’imputato che, altrimenti, verrebbe ad essere nello stesso tempo accusatore e accusato. E’ del resto incompatibile con l’art.24 Cost. ogni assetto normativo che miri a imporre a sospettato o all’accusato di un reato un dovere di fornire informazioni idonee non solo a contribuire alla propria condanna, ma anche ad aggravare le conseguenze a proprio carico.
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La conoscenza del soprannome o dello pseudonimo può assumere rilievo ai fini investigativi (es. intercettazioni nelle quali la persona sia indicata soltanto con il soprannome).
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Le informazioni sui beni patrimoniali o sulle condizioni di vita individuale, familiare o sociale, nonché sull’esercizio di uffici o servizi pubblici possono rilevare nella valutazione delle esigenze cautelari (es. pericolo di fuga), ai fini della commisurazione della pena (133, II, n.4 e 133bis p.) o delle misure interdittive rispetto ai pubblici uffici.
Per rendere effettivo il diritto al silenzio in tale ambito (già affermato, sia pure riguardo alla disposizione previgente, da Corte Cost., n.108 del 1976), la pronuncia n.111 del 2023 dà rilievo alla necessità di avvertire la persona della facoltà di non rispondere prima che le vengano rivolte le domande indicate dall’art.21 disp. att.
Una volta ricevuti tali avvisi, nulla vieta che le dichiarazioni rese in risposta a tali domande possano essere utilizzate contro il dichiarante per i più diversi scopi e che lo stesso possa essere chiamato a rispondere per il delitto di cui all’art.495, I, c.p.
All’esito di tali valutazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato
L’illegittimità:
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dell’art.64, III, p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti all’indagato o all’imputato prima che siano loro richieste le informazioni di cui all’art.21 delle norme di attuazione del Codice di rito
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dell’art.495, I, p., nella parte in cui non esclude la punibilità dell’indagato o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate dall’art.21 norme att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art.64, III, c.p.p. abbiano reso false dichiarazioni.
4. Falsari di parola (Inf., XXX, 91-129)! Il mendacio non è (ancora) un diritto
In modo similare rispetto a quanto previsto dall’art.384, II, c.p., la statuizione d'illegittimità Costituzionale dell’art.495, I, c.p. ha introdotto una causa di non punibilità in senso stretto, in quanto tale insuscettibile di estensione oltre i confini espressamente stabiliti dalla Corte.
L’art.384, II, c.p. esclude espressamente la punibilità per i falsi dichiarativi quando il fatto sia stato commesso da chi, per legge, non avrebbe dovuto ricevere tale richiesta, o non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere, o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere tali dichiarazioni. La punibilità è esclusa, specificamente, per i reati di cui agli artt.371bis, 371ter, 372 e 373 c.p., ai quali per l’interpolazione della Corte costituzionale va aggiunto l’art.378 c.p., sulle false o reticenti dichiarazioni rese alla p.g. da parte di chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle, a norma dell'art.199 c.p.p., o da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, ex 371, II, lett. b), c.p.p. – a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono (principi sanciti, rispettivamente, da Corte cost., n.416 del 1996 e n.75 del 2009).
L’art.384, II, c.p. si pone quale norma di chiusura del sistema sostanziale rispetto a quanto espressamente previsto, sul versante processuale, dall’art.199 c.p.p., che contempla espressamente il dovere del giudice di dare avviso della facoltà di astenersi ai prossimi congiunti dell’imputato, inclusi coloro che con lo stesso convivano o abbiano convissuto (199, III, lett. a, c.p.p.). Laddove tali avvisi non siano stati forniti nei termini di legge, per coerenza, il sistema prevede la non punibilità per le dichiarazioni rese, ancorché mendaci o reticenti, tenendo conto che le stesse dichiarazioni rese in violazione degli avvisi sarebbero affette da radicale nullità.
La previsione configura una causa di non punibilità in senso stretto, dettata da ragioni di opportunità politico criminale atte al coordinamento del sistema sostanziale con gli istituti processuali: non potrebbe infatti essere condannato un soggetto, per aver reso dichiarazioni che devono essere ritenute radicalmente nulle. Non è un caso che per estendere i confini della non punibilità oltre le previsioni specificamente richiamate dall’art.384, II, c.p. si sia reso necessario il ripetuto intervento della Corte Costituzionale, non potendosi procedere estendendo analogicamente una norma indubbiamente di favore, in ragione della sua natura eccezionale.
In modo analogo, si deve ritenere che la pronuncia n.111 del 2023 configuri la non punibilità del falso ex 495, I, c.p. - rispetto ai quesiti formulati ex 21 disp att. c.p.p. che non siano stati preceduti degli avvisi ex 64, III, c.p.p. - alla stregua di una causa di non punibilità in senso stretto, dettata dall’esigenza di coordinare gli istituti sostanziali con quelli procedurali posti a presidio dell’esercizio di un silenzio “informato”.
A conferma di tale assunto si pone la rigida perimetrazione dei confini del nemo tenetur se detegere processuale a proposito del diritto al mendacio. Nella pronuncia in commento, infatti, si declina il nemo tenetur processuale escludendo che questo possa spingersi sino a ricomprendere il diritto a dire il faso alle autorità nel tentativo di difendersi (argomento, quest'ultimo, sostenuto da Corte Cost. n.179 del 1994 e dallo stesso ricorrente, il quale riteneva, in base all’art.3 Cost., che fosse irragionevole prevedere un differente trattamento rispetto a situazioni analoghe, nelle quali la falsa dichiarazione all’autorità è sorretta dal tentativo di difendersi: le dichiarazioni concernenti il fatto di reato, da un lato, e quelle relative alle circostanze personali del suo possibile autore, richiamate dall’art.21 cit.).
Il fatto che il Legislatore non abbia previsto una sanzione penale per chi dichiara il falso nel tentativo di difendersi ad avviso della Corte “non significa necessariamente che tale scelta corrisponda a una valutazione di liceità della condotta medesima (tanto meno all’aver considerato quella condotta come espressione di un diritto di rango costituzionale)”. Si evidenzia come la scelta di non punire le dichiarazioni menzognere risponda a ragioni che normalmente rendono “non opportuna o non necessaria la pena a carico della persona che tali dichiarazioni abbia reso nell’intento di difendersi dalle accuse che le siano state rivolte”. Non a caso, in alcune ipotesi (367 e 368 c.p.), così come rispetto alle dichiarazioni sulla responsabilità di altri (64, III, lett. c) c.p.p.), l’ordinamento considera necessaria la pena in ragione d'interessi pubblici e privati prevalenti, valutando come necessaria la pena a carico della persona che abbia reso tali dichiarazioni per difendersi.
5. Il fulcro del bilanciamento: l’abuso del diritto di difesa
Alla luce delle indicazioni della Corte, l’esercizio del diritto di difesa si pone quale espressione di un diritto costituzionale (2-24, II, 111 Cost.), con conseguente liceità della condotta di chi sceglie di tacere dinanzi all’autorità, tuttavia la violazione delle condizioni procedurali che operano quale presupposto per l’esercizio di tale diritto renderebbe il fatto illecito, ma non punibile (causa di non punibilità in senso stretto, dettata da esigenze di coordinamento con la normativa processuale).
La situazione è invece ben più ambigua con riferimento al diritto al mendacio, rispetto al quale il ragionamento seguito dalla Corte non risulta del tutto persuasivo.
Offerto il sacrificio nominale alle esigenze di “politica criminale”, riconducibili concettualmente alla categoria della non punibilità in senso stretto, il Giudice delle Leggi (§4.1) si pone palesemente sul piano del bilanciamento degli interessi. Il potenziale sacrificio dell’onore e della libertà di un terzo (64, III, lett. c) c.p.p.), persino innocente (368 c.p.), o comunque dell’interesse pubblico all’amministrazione della giustizia in situazioni potenzialmente incisive anche di beni individuali (367 c.p.) è considerato prevalente rispetto al (non può che dirsi altrimenti) diritto dell’imputato o dell’indagato di rendere dichiarazioni mendaci al fine di difendersi dalle accuse che gli siano state rivolte.
Ne è conferma il fatto che, al di fuori di queste specifiche situazioni, il diritto al mendacio prevale sul bene “amministrazione della giustizia”, sotteso a ogni esercizio dello ius punitivo dello Stato.
Del resto, se la reticenza e il mendacio sono del tutto equiparati rispetto all’affermazione della responsabilità penale nei falsi dichiarativi, non può che residuare il medesimo spazio comune anche "nell’area della loro non punibilità", che è l'analogo negativo dello spazio riservato alla pena.
Il diritto di mentire è una forma di manifestazione del diritto di difesa (24, II, Cost., v. Corte Cost., n.179 del 1994, “l’imputato non solo gode della facoltà di non rispondere, ma non ha nemmeno l’obbligo di dire la verità”), rientrando in tale spettro di tutela la condotta dell’imputato che, invece di tacere, neghi o attenui mendacemente i fatti di cui è accusato (si pensi, ad esempio, all’allegazione di un alibi falso, o all’ammissione di colpa accompagnata dall’adduzione di una causa di giustificazione insussistente). In tale ipotesi, l’imputato, qualora decida di mentire, potrà beneficiare dell’applicazione in suo favore della scriminante generale dell’esercizio di un diritto (51 c.p.) che trova la propria fonte direttamente nella Costituzione (24, II, Cost.).
Nondimeno, come in ogni ipotesi di esercizio del diritto, l’ordinamento conferisce valore scriminante all’esercizio del diritto di difesa attuato mediante il mendacio soltanto entro precisi limiti, considerato il rischio d'intralci e sviamenti nell’accertamento dei fatti che da esso possono derivare.
Può rientrare nello spettro dell’art.51 c.p. soltanto la scelta di mentire che sia effettivamente dettata da esigenze difensive e non trasmodi in iniziative non necessarie contro la fonte delle accuse; per ricondurre l’esercizio della facoltà di mentire nell’ambito di protezione assicurato dal diritto di difesa, è necessario accertare che ricorrano due requisiti:
-
deve sussistere uno stretto rapporto funzionale tra la dichiarazione falsa
e la confutazione dell’imputazione a suo carico;
-
l’imputato deve limitarsi a negare la veridicità delle circostanze a suo carico - affermandone la falsità e, quindi, l’infondatezza - senza travalicare tale confine con iniziative abnormi dalle quali derivi la necessità di avviare un procedimento penale diretto a verificarle (Cass. , VI, n.1440 del 2011, Errichello; Cass. pen., II, n. 244730 del 2009, Ostuni). Infatti, l’indagato/imputato per difendersi, può dire il falso, ma non può arrivare fino al punto di sviare l’amministrazione della giustizia, così abusando del proprio diritto di difesa.
In presenza di tali parametri, il mendacio difensivo può essere equiparato al silenzio tenuto dall’esaminando: ciò che è garantito all’imputato come oggetto di un suo diritto processuale non può essere utilizzato, in contrasto con tale garanzia, quale tacita confessione di colpevolezza, sicché la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell’imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare e in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio” (v. Cass., I, n.2653 del 2011, Sez. II, n.22651 del 2010, Sez. V, n.11590 del 2006, Sez. IV, n.3241 del 1996).
6. Altre previsioni in attesa di una declaratoria d’illegittimità
La pronuncia della Corte Costituzionale n.111 del 2023 apre alla declaratoria d'illegittimità anche di altre disposizioni processuali, potenzialmente in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere Ci si riferisce alle disposizioni che consentono alla polizia giudiziaria di ricevere dall’indagato, anche senza la presenza del difensore, “notizie e indicazioni utili ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini” (350 V e VI c.p.p.), oppure “dichiarazioni spontanee” (350, VII, c.p.p.) senza preventivamente fornirgli gli avvisi relativi al suo diritto al silenzio. Tale difetto d'informazione può tradursi in un sostanziale aggiramento della garanzia del nemo tenetur, quantomeno nei casi in cui le informazioni acquisite dalla polizia, pur inutilizzabili (350, VI, c.p.p.) o utilizzabili in dibattimento esclusivamente per le contestazioni (350 VII, 503, III, c.p.p.) – siano comunque impiegate per reperire elementi probatori a loro volta utilizzabili contro il dichiarante.
L’art.352, Ibis, c.p.p. consente alla polizia giudiziaria di perquisire sistemi informatici, “ancorché protetti da misure di sicurezza”. Se il sistema informatico è protetto da un codice di sicurezza di pertinenza dell’indagato, gli organi inquirenti potrebbero non riuscire ad accedervi. Nondimeno, il sistema processuale vigente consente alla polizia giudiziaria di sollecitare l’indagato a fornire “notizie e indicazioni utili ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini” (350 c.p.p.), ossia le password in discorso, senza previamente avvertirlo della sua facoltà di non collaborare (in favore di tale soggetto, infatti, è previsto unicamente l’avviso della facoltà di nominare un difensore, secondo il combinato disposto degli artt. 356 e 114 disp. att. c.p.p.). Ciò pare del tutto irragionevole, giacché la Costituzione tutela il diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento” (24 II Cost.) e non si potrebbe escludere tale prerogativa nelle prime battute delle indagini. La Cassazione, ribadendo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, sottolinea che l’utilizzabilità - nelle fasi del procedimento diverse dal dibattimento - delle dichiarazioni spontanee assunte in assenza del difensore e in assenza dell’avviso sul diritto al silenzio, è conforme con quanto previsto dal d.l 101/2014 e dalla giurisprudenza della Corte EDU; la non conformità si configura solo ove le dichiarazioni non siano state rese spontaneamente, ma su sollecitazione (Cass. pen., II, n.22962 del 2022).
E’ nettamente minoritaria l’impostazione che ritiene che siano radicalmente inutilizzabili le dichiarazioni (spontanee o sollecitate) assunte senza le garanzie prescritte per legge (Cass. pen., III, n. 24944 del 2015; Cass. pen., III, n. 36596 del 2012). Tuttavia, in entrambi i casi, l’attenzione si è soffermata sulle dichiarazioni indizianti e sulle garanzie art.63 e non sul diritto al silenzio in quanto tale.
Per armonizzare le figure richiamate non si potrà estendere analogicamente la disposizione sull’avviso all’indagato del suo diritto al silenzio (64 III lett. b) c.p.p.), la cui violazione può condurre semplicemente a una non punibilità in senso stretto, per definizione insuscettibile di estensione oltre i casi in essa espressamente considerati.
Si attendono nuovi capitoli della saga.
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